Instabili Vaganti: l’errare come un rito di ricerca continuo Intervista di Maria Francesca Stancapiano

Foto di Anna Dora Dorno

Inaugurata lo scorso 17 maggio, l’ottava edizione di PerformAzioni – a cura della compagnia teatrale Instabili Vaganti – proseguirà fino al prossimo 6 giugno nella splendida cornice della città di Bologna.
Il fitto programma, incentrato sul tema “La città globale”, prevede spettacoli, workshop, master class, incontri, esiti di percorsi formativi nel teatro e nella drammaturgia contemporanea e un convegno internazionale sull’alta formazione teatrale. Insieme a Instabili Vaganti, tra i maestri e gli ospiti di quest’anno ci sono: Sergio Blanco (Uruguay), Paul Allain dell’Università del Kent (Regno Unito), Teatro Akropolis, Rita Maffei dell’Ecole des Maîtres, Gerardo Guccini e Silvia Mei dell’Università di Bologna, gli attori Dario Marconcini e Giovanna Daddi, la giornalista Simona Frigerio, la critica e studiosa di teatro Roberta Ferraresi.
«Lo stato dell’errare è una condizione sia individuale, di alcune persone ma anche una vera modalità di ricerca, come lo è per noi», afferma Anna Dora Dorno. Instabili Vaganti gira con precisi intenti per varie parti del mondo in “non luoghi” carpendone le energie, le tradizioni, gli usi, i costumi e tatuandoli negli spettacoli in site- specific (un aspetto essenziale della poetica della compagnia).
Ho avuto il piacere di colloquiare con Anna Dora Dorno, fondatrice del gruppo insieme a Nicola Pianzola, e di continuare ad approfondire (dopo l’intervista di Renata Savo già pubblicata su Liminateatri.it lo scorso 5 febbraio Instabili Vaganti: “attivisti teatrali” tra mondo e Italia) il loro lavoro.

La vostra compagnia è nata a Bologna nel 2004 con attenzione per gli aspetti visivi e interazione con nuovi media riuscendo a lavorare in site-specific e a creare un forte legame con l’ambiente circostante tanto da far riferimento alla sua identità. Nel “parametro” di Grotowski i partecipanti agli esperimenti abbandonavano la città, lavoravano in posti lontani e là iniziavano le performance, con o senza la supervisione dei collaboratori di Grotowski, tornando poi vergini, nuovi. È così anche per voi?

Dopo un periodo intensivo compiuto da entrambi con allievi di Grotowski, siamo stati proprio nella foresta a Brzezinka nel 2008, quando stavamo ideando il progetto Stracci della memoria (il progetto più lungo che si terrà anche in occasione del Festival nel site-specific dell’Oratorio San Filippo Neri). Il nostro percorso è particolare. All’inizio i luoghi erano molto singolari perché avevamo scelto di abitare in un posto nel bosco dove facevamo gran parte della nostra ricerca. Pian piano, poi, questi luoghi sono diventati non solo naturali ma anche urbani, luoghi periferici, luoghi abbandonati, da riconsegnare alla comunità attraverso il teatro. È successo, ad esempio, al festival Para El Fin del mundo a Tampico, in Messico, al confine con gli Stati Uniti dove il narcotraffico ha provocato l’abbandono di molti luoghi o in Uruguay o, ancora, in Argentina. Qui, abbiamo lavorato in ex fabbriche portando il nostro spettacolo Made in Ilva. Con il tempo abbiamo fatto diversi progetti in vari luoghi: dalla Corea del Sud alle grandi Megalopolis, queste ultime ci hanno spinto a fare il nostro progetto Megalopolis, appunto, in cui lavoriamo con artisti locali e cerchiamo di riportare tutte le esperienze e suggestioni all’interno del nostro lavoro e della nostra identità.

 

Qual è il rito che si crea tra performer e fruitore in una piazza o comunque in un luogo abbandonato?

Qualcosa di molto forte e particolare perché al di là dell’esperienza estetica c’è anche una forte valenza etica e quindi un’azione politica come quella di rigenerare un luogo, di rimpossessarsene, attraverso un’azione culturale ed estetica. La combinazione delle due cose genera un impatto emotivo forte e un ritorno immediato. Come immediata è la “distrazione” dal quotidiano perché c’è una sospensione del tempo e del luogo in un momento onirico.

 

Nella vostra poetica in che modo avviene la fusione tra nuovi media e site-specific (luoghi naturali o posti abbandonati)?

I modi sono diversi perché ogni luogo ha una sua caratteristica. La nostra missione primaria è vedere cosa il luogo stesso suggerisce, richiama, altrimenti un intervento può risultare un’invasione. Prima dello spettacolo c’è una residenza in un site-specific per prendere confidenza. In Messico, ad esempio, nella laguna di Tampico, abbiamo lavorato con artisti locali all’interno di un aereo. Qui, compivamo interventi fisici e musicali con musica elettronica elaborata. Tra l’altro, dentro quello spazio per noi nuovo abbiamo girato un video che verrà proiettato all’interno dell’opera The Global City (prossima produzione). In questo caso, non solo c’è stato un intervento sul luogo, in quel momento, portando opere e video, ma quello stesso luogo è stato anche “esportato” attraverso le arti multimediali in altri teatri.

Foto di Anna Dora Dorno

Attraverso l’agire psicofisico è possibile vivere e portare a compimento un’esperienza e nella messa in scena del corpo è possibile riflettere sull’esperienza stessa. La vostra poetica è composta da stilli diversi che, presumo, da Instabili Vaganti, assumete nei diversi viaggi che avete e continuate a fare: Tunisia, Cile, Cina, Corea del Sud, India, Uruguay. Ciascuna di queste terre ha un rito proprio diverso: quale quello che vi è rimasto più impresso? Da quale disciplina siete rimasti maggiormente folgorati? Quali stili diversi sono tatuati nei vostri corpi?

Sono tante le suggestioni ricevute. Per quel che mi riguarda tutto ciò che è legato all’Oriente, ma nello specifico nella Corea del Sud, è entrato a far parte della nostra poetica: si tratta di una particolare modalità di movimento e di coinvolgimento connessa alla contemplazione, all’uso del corpo e al “contenimento”, perché la cultura orientale tende a contenere emozioni, mentre noi occidentali siamo abituati a esternarle. In Corea abbiamo fatto una residenza di quaranta giorni in un villaggio rurale dove la gente difficilmente accoglie degli occidentali: lo stupore era alla base del giorno e i loro ritmi sono entrati nel nostro agire. In alcune parti dello spettacolo ll rito e nell’ultima produzione c’è il narrare, il rivivere tutte le esperienze che abbiamo vissuto e tutti i luoghi in cui siamo stati.

 

Più corpo o più parola?

Più corpo, ma la parola non è avulsa da quello che facciamo. Essa è sempre organicamente integrata, tant’è vero che i nuovi spettacoli stanno nascendo in diverse lingue, penso a Desaparesidos#43, proprio perché vivendo e rimanendo a contatto con determinate realtà difficilmente riusciamo a separarcene. Il testo nasce da Nicola e ogni lingua si lega a quello specifico Paese, divenendo una parte fondamentale del Paese stesso.

Lo spettacolo Il rito riporta la seguente affermazione: «Il ricordo trova la sua giustificazione d’essere fino a quando è presente una coscienza in grado di evocarlo». Mi viene in mente Turner che nelle sue teorie sul “dramma sociale” parla «di una rottura di una norma che può essere anche di sfondo di sentimenti appassionati». Nello spettacolo, un uomo e una donna agiscono in mondi paralleli fino poi a incontrarsi nel presente. In questo incontro, che genera pathos e sofferenza, si può ricorrere a quanto Turner ha teorizzato nella propria analisi, o meglio: può essere visto, anche questo come un “dramma sociale”?

Può essere visto come “dramma sociale” perché si parte dalla memoria individuale per arrivare a quella storica. Le azioni sono scaturite da alcuni episodi di guerra, in particolare la Seconda Guerra Mondiale qui a Bologna. Abbiamo parlato direttamente con le persone coinvolte nel massacro di Monte Sole: tutto quello che portiamo all’interno dello spettacolo, nel nostro corpo e nel video, deriva dalle suggestioni ricevute e poi rielaborate non come testo ma come corpo, come azione, come musica creata appositamente (tipo il suono dell’armonium o i suoni di agenti atmosferici). È chiara la nostra intenzione di richiamare un “dramma”, interiore e poi sociale, e restituire una visione che riemerge nell’istante della performance.

 

Secondo Artaud, nel teatro della crudeltà il corpo non è solo strumento finalizzato ad un’estetica ma cerca di raccogliere tutte le energie comprese quelle fisiche per parlarci di un oltre corpo che è linguaggio razionale dei segni. Voi sintetizzate il linguaggio in una poetica di gesti. In cosa consiste il vostro studio, la vostra ricerca sul corpo, sulla voce, sul testo?

Il lavoro che facciamo è su vari livelli: individuale, storico, antropologico. L’azione scenica e quella fisica rappresentano il singolo momento: si parte dalla dimensione individuale per poi arrivare all’espressione universale del linguaggio.

C’è un rito da compiere ogni giorno nella continua ricerca della consapevolezza del proprio essere in una città globale. Un rito che riproponga l’intera umanità nella sintesi del gesto, nel bianco, nel rosso, nel nero. Un rito che riecheggi la memoria di una storia necessariamente da ricordare e mai da dimenticare. Il gesto di Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola si compie in poesia perché sanno ascoltare le eco dei luoghi che hanno ancora da raccontare e riportarle in altri luoghi, in altri teatri, attraverso linguaggi sperimentali. È un rito che ha bisogno di costanti riti.

 

Foto di Anna Dora Dorno