Fare teatro in carcere non è riabilitare. È fare teatro e basta! Intervista alla regista Francesca Tricarico di Letizia Bernazza

Dal 2010, con l’Associazione Culturale PerAnanke si occupa di teatro e carcere. Lavora nella Casa Circondariale romana di Rebibbia dal 2013 dove nasce il progetto Le Donne del Muro Alto (sezione Alta Sicurezza) e Più Voce (sezione Media Sicurezza). Parliamo della regista Francesca Tricarico che il prossimo 29 maggio dirigerà nel carcere romano di Rebibbia Ramona e Giulietta. Ispirato alla celebre opera di Shakespeare Romeo e Giulietta, la messinscena mette l’accento sul tema dell’omosessualità dentro e fuori il carcere. Due donne che trovano la forza di gridare il loro amore. Due donne che lottano contro pregiudizi e falsi tabù, per “dare sfogo” a un amore che, come il teatro, è il pretesto per raccontare il carcere e non solo. Per renderci partecipi del significato del nostro stare al Mondo, abbandonando le regole, spesso ipocrite, della morale riconosciuta.
Ma quale è per Francesca Tricarico il valore più alto racchiuso nel suo lavoro in carcere? Ce lo spiega lei stessa in questa conversazione.

Come sei arrivata nel Carcere di Rebibbia e che cosa ti ha spinto a fare teatro in carcere?

Sono arrivata a Rebibbia tramite un master in Teatro Sociale all’Università, seguito da un lungo tirocinio. Un legame che non si è mai interrotto con la fine del master. Ho provato da sola a proporre e a realizzare un laboratorio con l’associazione PerAnanke con la quale collaboro e ho fatto richiesta di andare nella sezione femminile. Sono undici anni oramai che faccio teatro in carcere.  Mi domandavo come mai ci fosse poca risonanza rispetto alla sezione maschile dove il teatro era un’attività ormai consolidata da anni. Si sentiva sempre parlare di cucito, di cucina, ma poco di attività legate a “esercizi” più culturali. Da lì è iniziata quest’avventura nell’Alta Sicurezza di Rebibbia. Ad oggi, abbiamo fondato due compagnie: Le Donne del Muro Alto, con le attrici dell’Alta Sicurezza femminile, e la compagnia Più Voce, con le sezioni di Media Sicurezza.

Quale ruolo affidi al teatro nel lavoro che fai con le detenute del Penitenziario romano?

Il ruolo del teatro all’interno di Rebibbia è il medesimo ruolo che il teatro ha all’esterno ma, come tutte le cose che accadono in carcere, la percezione, e non solo, è l’identità stessa delle azioni, delle parole, dei gesti che risultano essere amplificati. È vero quando si dice che il carcere è una lente di ingrandimento della società. Il teatro permette di avere maggiore percezione di noi stessi, soprattutto in un luogo dove c’è una sorta di anestesia di sé, del proprio corpo e delle proprie sensazioni. Amplificare la percezione di sé vuol dire, dunque, entrare più in profondità con l’altro. Quello che mi ha colpito da subito del carcere sono state le urla, il parlarsi sopra, la mancanza di ascolto. Si parla tanto di attività rieducative, ma se non si presta attenzione all’ascolto, se non funziona l’ascolto tra te e l’altro, poco può migliorare nella comunicazione. Il teatro è proprio questo: un nuovo modo di comunicare senza le urla. Inoltre, un’altra importante funzione del teatro è che la voce delle detenute sia in qualche modo protetta dal testo e dal racconto che possono restituire i loro bisogni e le loro esigenze. Le stesse necessità di chi vive fuori le mura, soltanto che qui risultano, come dicevamo prima, amplificate.

Secondo te, qual è il confine tra teatro inteso come terapia, rieducazione, animazione e un teatro tout court pensato per “sfidare” le regole stesse del contesto carcerario?

Secondo me, ciò che viene definito come terapia non è teatro. C’è la terapia, c’è l’animazione e c’è il teatro. Il teatro è a sé e deve mantenere la sua natura, dentro e fuori le mura di un carcere. Penso che se il teatro rispettasse sempre la sua natura, appunto, così come le sue dinamiche, se si badasse dunque al lavoro di costruzione vero e proprio che convoglia poi in un prodotto finale, spontaneamente esso può assumere anche un valore terapeutico e pedagogico su di noi. La parola costruire e il poterla applicare insegna già tanto. Quando si impone di essere terapeutico o si presenta come riabilitazione, il teatro molto spesso non soddisfa tale finalità. Le detenute a Rebibbia io le tratto come attrici, non come persone da riabilitare, e da lì sono spronate a dare il meglio di loro stesse, e forse soltanto da lì avviene un confronto vero e personale.

Cosa pensi delle altre esperienze teatrali attive nelle carceri italiane? Ce ne è qualcuna a cui ti senti  particolarmente vicina?

Le attività di teatro in carcere che si fanno in Italia sono tantissime, talmente variegate che è persino difficile parlarne. Si trovano veri e propri professionisti che portano avanti dei lavori di un livello altissimo, registi che conducono percorsi interessanti di ricerca e poi vi sono attività condotte a livello più amatoriale. Personalmente sono molto legata all’attività che si svolge nel carcere di Civitavecchia e a una cara collega, Ludovica Andò. Pur lavorando in modo diverso abbiamo la stessa etica nell’approcciare il fare teatro in carcere.

Come nasce Ramona e Giulietta e che tipo di percorso drammaturgico e attoriale hai fatto con le detenute-attrici?

Quest’anno, più che negli anni passati, abbiamo sentito la necessità di parlare dell’argomento dell’omosessualità. Siamo partiti, come nostro solito, da un laboratorio, conducendo degli esercizi teatrali per capire cosa davvero si volesse raccontare. Durante le prove erano frequenti le battute sugli amori nati in carcere, su una donna che si era appena innamorata o su un’altra che aveva litigato con la compagna, e le reazioni erano diverse. C’era chi partecipava e supportava le varie questioni e chi le reputava, addirittura, qualcosa di vergognoso. Allora mi son detta: perché non portiamo nel lavoro teatrale tutte queste discussioni così da farle diventare “produttive”? Si sono, così, innescati una serie di dibattiti interessanti, anche in sezione: quando le detenute hanno saputo che lavoravamo su questo tema, hanno iniziato a parlarne in maniera più serena, libera, meno censurata. L’occasione del lavoro teatrale è stato un vero e proprio spunto di riflessione.

Cosa vorresti diventasse il tuo progetto all’interno di Rebibbia in un prossimo futuro?

Quello che sta diventando, ed è ad oggi il progetto, mi rende molto felice. Un’attività a cui le detenute partecipano con piacere, non perché devono acquistare punti favorevoli per la parte educativa o per avere delle agevolazioni. All’inizio venivano e partecipavano tutte per un motivo concreto: stare fuori dalle celle. Ora si rendono conto di quanto il teatro restituisca loro e ciò mi gratifica molto. Altro aspetto importante è la partecipazione da parte degli agenti. Prima vedevano il momento del teatro come un carico di lavoro in più per loro, ora come attività di cui essere orgogliosi. È cambiato anche il clima fra gli agenti e le detenute che fanno teatro: l’atmosfera generale è diventata molto più distesa. In futuro, posso soltanto sperare che si continui, in crescita, su questa strada. Ciò che vorrei è avere maggiore stabilità. Di anno in anno, non sappiamo se ci sono i fondi disponibili per far ripartire il progetto. In questo modo diventa difficile costruire in serenità un percorso concreto. Desidererei che il progetto avesse una maggiore stabilità e un maggiore sostegno da parte delle istituzioni in modo da garantire a tutti e a tutte noi uno spazio teatrale in cui dare vita a nuovi lavori.